EMIGRAZIONE E CRESCITA DEMOGRAFICA

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EMIGRAZIONE E CRESCITA DEMOGRAFICA

di Valeriana Mariani

Controllo politico dell’economia, guerre, corruzione, assenza della mentalità imprenditoriale, inadeguatezza della legislazione e crescita demografica: sono queste le autentiche cause del sottosviluppo, cause oggettive, incontestabili, operanti sotto gli occhi di tutti e preesistenti al colonialismo. Su queste cause i movimenti pacifisti e no global tacciono o sorvolano. L’accusa al sistema capitalistico di essere il responsabile della povertà del Sud del mondo è priva di fondamento perché il capitalismo è soltanto un modo efficace per produrre ricchezza (e non per regolarne la distribuzione), e l’incapacità di produrla dipende dalle cause culturali e politiche che abbiamo esaminato, esistenti da sempre; il mancato aiuto dei paesi ricchi a quelli poveri è invece la conseguenza dell’egoismo miope dei cittadini dell’Occidente.

L’educazione delle donne: il freno più efficace alla crescita demografica e uno stimolo allo sviluppo

Lo sviluppo sociale e l’emancipazione femminile nei paesi del Terzo mondo sono fattori decisivi nella lotta per il contenimento del tasso di natalità: povertà, crescita indiscriminata, profughi e condizione femminile sono problemi sociali fortemente interconnessi tra loro. La realtà della situazione che si va determinando per l’eccessiva crescita demografica non viene finora percepita in tutta la sua drammaticità. Finché le donne restano marginali rispetto al mercato del lavoro e finché la loro posizione sociale dipende dal matrimonio, continueranno ad avere molti figli, come è sempre avvenuto in tutte le società in cui alla donna non vengono offerti altri mezzi di promozione sociale e di realizzazione personale. Ma è difficile trasformare rapidamente questa recente consapevolezza in effettive politiche scolastiche e disposizioni legislative, perché nei paesi che più ne avrebbero bisogno la cultura diffusa è ostile o indifferente all’istruzione delle donne e alla loro valorizzazione sociale.

Emigrazione e crescita demografica

Ricordiamo alcune cifre, trascurate da chi pensa che l’apertura delle frontiere dei paesi industrializzati all’emigrazione dai Paesi in via di sviluppo potrebbe dare un significativo contributo per risolvere il problema dell’eccessiva crescita demografica di questi ultimi. Fra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’emigrazione europea scaricava fuori dal vecchio continente fino al 20 per cento del surplus demografico annuale. Alla fine del Novecento la direzione del flusso migratorio si è invertita, ma le aree economicamente forti riescono ad assorbire ogni anno un numero di immigrati infinitamente più modesto, pari ad una frazione molto piccola del surplus demografico delle aree sottosviluppate. Questo numero è destinato a crescere nei prossimi anni, a causa del perdurante del calo delle nascite in Europa e in Giappone; resta tuttavia illusorio fare conto sull’emigrazione per risolvere il problema: l’Europa, quando ha avuto squilibri demografico-occupazionali legati al ciclo demografico e allo sviluppo dell’industrializzazione, ha trovato, o si è presa, due grandi opportunità storiche: i nuovi mondi da popolare e le colonie da sfruttare. I paesi del Sud del mondo, che hanno oggi da fronteggiare squilibri straordinariamente più intensi di quelli che caratterizzarono l’Europa un secolo fa, non si ritrovano né gli uni, né tantomeno, com’è giusto, le altre. E’ quindi evidente che il problema della sovrappopolazione nel Terzo mondo non verrà risolto, e nemmeno significativamente attenuato, con l’accogliere più immigranti, e ciò a causa di un fatto elementare: gli entrati non servono a ridurre il numero degli entrandi, semmai servono a richiamarne di più. Non è che chi entra dentro riduce il totale di chi resta fuori; perché quel totale è in ogni caso crescente. Il totale di chi resta fuori cresce ogni anno di circa settanta milioni; malgrado questa realtà, molti avversari del capitalismo affermano che è doveroso liberalizzare completamente la circolazione delle persone in qualsiasi paese: se con la globalizzazione le merci e i capitali si spostano liberamente ovunque, la stessa possibilità, essi affermano, deve essere riconosciuta ai lavoratori. E’ evidente l’insensatezza della proposta: l’apertura indiscriminata delle frontiere creerebbe drammatici sconvolgimenti sociali, e porterebbe immediatamente al governo, in tutti i paesi occidentali, le forze politiche che vi si oppongono.

L’illusione di frenare l’emigrazione mediante accordi con i governi.

In Europa molti ritengono che sia possibile un contenimento dei flussi migratori mediante accordi con i governi dei paesi dai quali proviene la maggior parte degli extracomunitari, ma si tratta di una prospettiva irrealistica perché questi paesi, afflitti da un insostenibile eccesso di popolazione, hanno interesse non già a frenare l’emigrazione ma ad incrementarla il più possibile. Ad esempio nel 2002 il governo tunisino ha deliberato
sostanziose misure fiscali e doganali a vantaggio dei settecentomila tunisini emigrati all’estero, considerati a giusto titolo benefattori della patria: basti pensare che nel 2001 le rimesse degli emigrati sono ammontate a 850 milioni di dollari, pari alla metà degli introiti complessivi del turismo, che è un settore strategico per l’economia tunisina. Si potrebbe forse invertire questa tendenza, e ottenere dai governi un’autentica collaborazione per frenare l’emigrazione illegale, soltanto regalando a quei paesi ingenti capitali per tentare di promuovere sul posto sviluppo e occupazione, ma i cittadini europei, non sono per ora disposti a sostenere i costi di questi progetti.

Immigrati regolari e immigrati clandestini.

Gli immigrati regolari sono indispensabili per svolgere i lavori che i giovani dei paesi ricchi rifiutano; essi godono degli stessi diritti dei lavoratori nazionali ed hanno gli stessi costi. Diversa la condizione dei clandestini, che si prestano ad essere sfruttati dagli imprenditori: salari al di sotto dei minimi contrattuali, niente oneri sociali, nessun tipo di protezione: offrono insomma, all’interno dei confini nazionali, gli stessi vantaggi della delocalizzazione, senza il fastidio e i costi del trasloco all’estero.

Ricongiungimenti famigliari e numero dei figli.

L’immigrazione può creare nei paesi ricchi due tipi di conseguenze: in molti casi all’immigrato che lavora si ricongiungono la moglie, i figli e i genitori anziani, con due conseguenze:

1) aumenta l’affollamento nei servizi sociali, specie nella sanità;
2) l’elevato carico famigliare determina lo scavalcamento dei cittadini locali da parte degli immigrati nelle graduatorie per l’attribuzione dei posti negli asili pubblici e per l’assegnazione degli alloggi nell’edilizia popolare. Si tratta di conseguenze giuste e inevitabili, che tuttavia accrescono in molti cittadini locali l’ostilità verso gli immigrati.
3) La seconda conseguenza, legata all’elevato numero dei figli degli immigrati, è già attuale in alcuni paesi, mentre in Italia, dove l’immigrazione si è fatta consistente molto più tardi, potrebbe diventare un problema fra alcuni anni. La questione è semplice: oggi un immigrato copre un posto di lavoro vacante, ma è difficile sperare che fra qualche anno i posti di lavoro vacanti si moltiplichino per tre o per quattro, a disposizione dei tre o quattro figli dell’attuale immigrato. Vi è insomma il rischio di una massiccia disoccupazione tra i figli degli immigrati.15.8 – Il rapporto tra la crescita demografica e il sottosviluppo Lo stretto rapporto tra la povertà. Consideriamo una popolazione che cresca per una generazione (cioè una trentina d’anni) al ritmo del 3 per cento, come è avvenuto in tanti paesi poveri. Anzitutto una crescita di questo tipo implica che, nell’intervallo, la popolazione si moltiplica per due volte e mezzo, e di altrettanto debbono moltiplicarsi le risorse alimentari, le abitazioni, i servizi di base per mantenere invariato il livello di vita, anche se molto povero. Poiché le famiglie hanno molti figli, molto poco può essere destinato al risparmio e quindi gli investimenti languono. Poiché anche bambini e giovani crescono al ritmo del 3 per cento l’anno, è difficile migliorare il loro livello d’istruzione e i giovani arrivano nel mercato del lavoro privi di elementari conoscenze, poveri in ‘capitale umano’, alimentando disoccupazione e sottoccupazione.
Appare quindi evidente che soltanto l’arresto della crescita demografica può avviare lo sviluppo. Se questa popolazione riesce a comprimere il suo tasso di crescita, le famiglie, con meno figli, possono risparmiare qualcosa, alimentando gli investimenti. La spesa pubblica può ripartirsi su un numero di giovani che cresce meno velocemente e i livelli di istruzione e qualificazione possono migliorare. L’afflusso nel mondo del lavoro è meno intenso e composto di leve più qualificate. La spirale dello sviluppo, prima bloccata, può mettersi in moto. Vano e disperato è lo sforzo di avviare lo sviluppo in paesi nei quali oltre il 50 per cento della popolazione ha meno di 15 anni. Nessuno riflette su questo fatto: come si può creare sviluppo in un mondo pieno di bambini bisognosi di tutto? E come può l’Occidente fingere di scandalizzarsi se questi bambini vanno a lavorare invece che a scuola? Infine in molti paesi nei quali lo sviluppo si è avviato grazie al basso costo del lavoro, la crescita della popolazione aumenta l’offerta di manodopera, riducendo la possibilità di futuri aumenti salariali.

Dell’Europa rimarrà soltanto il nome del territorio geografico. Il resto sarà Africa.

Nell’impossibilità di selezionare o bloccare l’immigrazione non vi è altra prospettiva che quella di uno scontro etnico interno: è irrealistico pensare che solo l’Europa, fra tutti i continenti, possa essere l’eccezione. Sotto l’urto di imponenti immigrazioni extraeuropee, gli Stati nazionali si dissolveranno. Il futuro sarà teatro di scontri razziali.

I numeri sono allarmanti e dimostrano che il fenomeno dell’emigrazione dall’Africa è tutt’altro che secondario nelle logiche geopolitiche.

Secondo uno studio del Pew Research Center il 40% della popolazione degli Stati sub-sahariani è pronta a emigrare. Uno Stato su tutti, di quelli interessati dall’inchiesta dell’istituto americano, fa comprendere a cosa il mondo vada incontro: la Nigeria. Il 74% degli intervistati dal Pew Center (e parliamo di un Paese con 181 milioni di abitanti e un tasso di fertilità di 5,6 figli per donna, secondo la Banca Mondiale) ha detto “sarebbe andato a vivere in un altro paese”, mentre il 38% dei nigeriani ha risposto che “progettano di emigrare nei prossimi cinque anni”. Tra i gli immigrati arrivati ??nel Mediterraneo dal 2017, i nigeriano rappresentano il secondo gruppo più numeroso dopo i siriani. Ma è un problema che non riguarda soltanto la Nigeria. Il sondaggio, condotto nel 2017 nei dieci Paesi sub-sahariani con il maggior numero di emigranti, rivela in generale alte percentuali di cittadini pronti a partire per l’estero nei prossimi cinque anni. In Senegal il 44% della popolazione, in Ghana il 42 %, in Kenya il 19%. E la popolazione del Senegal è l’unica a preferire l’Europa rispetto agli Stati Uniti. Una popolazione pronta a emigrare che rappresenta un flusso che, fino ad ora, è rimasto nel continente africano. Secondo un recente rapporto della Fao, il 75% degli africani subsahariani che hanno lasciato il loro Paese nel 2017 è rimasto nel continente. Un segnale di come il flusso arrivato in Europa e cui l’Italia assiste e si trova a dover fronteggiare, è solo una parte minima. A questo fenomeno, si aggiunge quello della crescita esponenziale della popolazione di questi Stati cui non fa seguito una possibilità di lavoro. Un circolo vizioso che rende di fatto l’emigrazione l’unica possibilità di trovare un destino diverso dalla povertà o dalla criminalità e che sarà certamente una grande mangiatoia per tutte le organizzazioni coinvolte nel traffico dei migranti. La popolazione dell’Africa subsahariana è aumentata dovrebbe arrivare alla cifra record di 1,4 miliardi di persone nei prossimi quaranta anni (entro il 2055). Entro la metà del secolo, la popolazione rurale stimata in questa parte dell’Africa dovrebbe aumentare del 63%, facendo sì che essa sia l’unica regione al mondo in cui la popolazione rurale continuerà a crescere dopo il 2050. In poche parole, circa 220 milioni di giovani senza istruzione e di aree esclusivamente rurali del mondo entreranno nell’età attiva per lavorare nei prossimi 15 anni, con aree rurali sempre più densamente abitate, sempre meno produttive e comportando un’enorme pressione sul settore agricolo. Senza la creazione di posti di lavoro e senza diversificazione delle economie dei singoli Paesi, il mondo (perché il problema è di tutti) si troverà centinaia di milioni di persone in procinto di emigrare dall’Africa. Un dato su cui riflettere, specialmente per noi italiani e per l’Europa. O si modificherà la politica migratoria, o ci troveremo, in pochi decenni, ad assistere alla crescita di un fenomeno che sembra, visti i numeri, inevitabile. Anche perché, fino ad ora, è stata palese l’incapacità del nostro continente di offrire una soluzione quantomeno equa. Come scrive il Pew Center, in termini di destinazioni, “a partire dal 2017, quasi tre quarti (72%) della popolazione immigrata subsahariana in Europa si è concentrati in soli quattro Stati: Regno Unito (1,27 milioni), Francia (980.000), Italia (370.000) e Portogallo (360.000)”. E la maggior parte del flusso è rimasto in Africa.

 

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