IL LATO OSCURO DELLA MODA

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IL LATO OSCURO DELLA MODA

di Valeriana Mariani

Dicono che la rivoluzione nella moda del terzo millennio si chiami fast fashion, che vuol dire moda svelta, alla portata di tutti: abiti pubblicizzati in tutte le riviste di moda e nei giganteschi manifesti per strada i cui show-rooms abitano le vie più eleganti di ogni città. Il segreto del fast fashion è che la maggioranza la considera una grande risorsa in tempi di crisi economica mentre una fetta di mercato crede sinceramente che gli abiti vengano estrusi o stampati in catena di montaggio, come fossero biscotti. Quello che dimentichiamo troppo spesso è che nella realtà del mercato globale nessuno regala niente, e se state pagando un prezzo stracciato per  un prodotto, qualcun altro sta pagando la differenza di prezzo; nel caso del fast fashion sono le operaie asiatiche, che lavorano come schiave per stipendi da fame in edifici insicuri.

A rifletterci bene non è neanche vero che con il fast fashion si risparmia, perché annualmente il consumatore occidentale acquista il triplo dei capi di cui ha bisogno: sotto l’egida del risparmio si acquista tanto e spesso male. Se dobbiamo essere sinceri anche il contrabbandato livellamento sociale è probabilmente un’operazione di marketing, e il vestito low cost indossato da una donna famosa non è uguale a quello venduto a tutti bensì un prototipo cucito su misura per lei. Il marketing si fa anche con un paventato, virtuoso, riciclo, ma in realtà solo una piccolissima parte dei nostri vecchi abiti vengono effettivamente riciclati, e se la materia prima non è naturale il riciclo costa più del tessuto originale. Inoltre la gratuità delle spedizioni per seguire i capricci dell’acquirente è pia illusione, anche in questo caso qualcuno sta pagando la differenza, ed è l’ambiente che soffre per l’eccesso delle emissioni del trasporto aereo e stradale. Infine si disegna e si cuce per un’unica tipologia fisica e un’unica fascia di età, questo comporta che la stragrande maggioranza di uomini e donne che non corrispondono agli stereotipi di Barby e Ken devono per forza adeguarsi ad abiti pensati per canoni estetici irraggiungibili. La schiavitù esiste ancora, nelle fabbriche cinesi ma anche nel cuore della vecchia Europa. Gli schiavi del terzo millennio sono lavoratori della moda, di un’industria che confeziona lussuosi capi di abbigliamento per le vetrine delle nostre eleganti boutique. “Made in Italy” racconta un mondo di intollerabile miseria e sopraffazione fatto di carnefici e vittime: squallidi luoghi in cui si produce gran parte del nostro lusso… l’amara consapevolezza è che questo vergognoso mercato di esseri umani non solo favorisce i calcoli di imprenditori senza scrupoli, ma danneggia l’intera industria italiana e il consumatore. Sotto la griffe si nasconde l’antica realtà dell’avidità umana. Privilegiare il Made in Italy è dunque parzialmente un’illusione perché la legge 55/2010 (la cui efficacia è stata, tuttavia, sospesa di una circolare dell’Agenzia delle dogane) consente di apporre questa dicitura sui prodotti tessili per i quali almeno due delle fasi di lavorazione abbiano avuto luogo in Italia.

Per un capo fatto integralmente fuori basta farlo stirare e attaccarci i bottoni a Milano o metterci un tessuto di provenienza nostrana (sarà poi vero?) per fargli avere a tutti gli effetti l’etichetta Made in Italy. In ogni modo è meglio scegliere prodotti realizzarti in Italia e in Europa, perché perlomeno il loro impatto ambientale è controllato e regolato. Gioverebbe anche una sbirciata al sistema Rapex, sul sito http://ec.europa.eu, che periodicamente segnala i prodotti di consumo dichiarati pericolosi. Altri bacini di miseria sono in Europa dell’Est, Nord Africa e Asia, dove si trova l’ottanta per cento dei prestigiosi nomi del Made in Italy. L’utilizzo di queste scappatoie, che consente di realizzare parti di produzione nell’Est Europa o in Cina, ha impoverito il prodotto e ha anche indebolito il marchio; dovremmo tornare a regole ferree ma perché questo avvenga è necessario rivoluzionare un “sistema Italia” laddove il costo di capitale per l’unità di prodotto è altissimo rispetto ai nostri competitors europei. Nonostante questo gap, per nulla sottovalutabile, affianco a molte aziende che scelgono di spostare la propria produzione all’estero per abbassare i costi, ce ne sono alcune che decidono invece di tornare nei luoghi dove tutto era iniziato. Questo fenomeno, conosciuto come backshoring, è un processo di rilocalizzazione delle linee produttive manifatturiere verso il paese di origine e sarebbe in aumento, soprattutto nel contesto italiano. La principale ragione di questo fenomeno sarebbe il prestigio derivante dai prodotti che possono fregiarsi del “made in”, a possibilità di offrire un miglior servizio al cliente e la ricerca di qualità più elevata. Il backshoring non è però la panacea per ogni male e non risolve in toto il problema della disoccupazione: l’intervento governativo dovrebbe garantire un quadro finanziario ideale al ritorno, creando un sistema sostenibile tra peso fiscale e iter burocratico, che punti a non penalizzare il rientro delle imprese.

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