Donne vittime di uomini. Uomini vittime di donne.

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Donne vittime di uomini. Uomini vittime di donne.

a cura di Valeriana Mariani

Intorno alla violenza sulle donne si è costituito un business inimmaginabile. Una sorta di indotto, un po’ come quello delle pari opportunità. Un vero e proprio progettificio volto a strumentalizzare il fenomeno. E le donne. Tanti si improvvisano per intercettare fondi, infischiandosene dell’effetto collaterale di questa informazione unidirezionale che è la cristallizzazione della figura della donna nel ruolo della vittima e quella dell’uomo nel ruolo del carnefice.

Sottoscrivendo la nozione di vittime universali non possiamo far altro che confrontarci con un sesso che inevitabilmente apparirà nelle discussioni sempre come il più forte, ci si nega in questo modo il potere di autonomia per il quale si è a lungo combattuto. E la libertà va di pari passo con il controllo sulla propria vita. Riflettiamoci dunque, tutti, uomini e donne, perché il problema non si affronta con la via crucis di scarpette rosse e rappresentazioni circensi, ciò serve esclusivamente ad alimentare l’allarme sociale. Tanto più l’allarme sociale è alto, tanto più i finanziamenti sono alti e fanno gola: così nascono associazioni con il solo scopo di goderne “fottendosene alla grande” delle donne. Anche questo è stupro. Fors’anche il peggiore degli stupri. Dal voler sempre vedere le donne come vittime nasce la teoria della cortina di pizzo, la teoria elaborata da Warren Farrell secondo cui quando a commettere un’efferatezza è un uomo ci si concentra sul gesto, è un mostro e va rinchiuso; quando è una donna ci si chiede perché, è pazza e va curata. Questo pregiudizio, perché è di questo che si parla, è tanto radicato che è stato riconosciuto anche in ambienti più importanti della sola concezione sociale, persino in ambienti medici. Da uno studio psichiatrico condotto nel Regno Unito nel 2005 dal titolo “GENDER AND RISK ASSESSMENT ACCURACY”, è risultato che gli psichiatri tendono a sottostimare il potenziale violento femminile; lo stesso fu riscontrato in Italia da Maria Laura Fadda in Differenza di genere e criminalità, diritto penale contemporaneo in cui scrive: “per gli uomini il comportamento deviante si traduce in comportamento criminale, nelle donne assume la forma del crollo mentale”. Ci sono voluti anni di appoggio e supporto per incoraggiare le donne a denunciare la violenza domestica. Praticamente per incoraggiare gli uomini non è stato fatto nulla. L’idea che gli uomini possano essere vittime di abuso e di violenza in famiglia è così impensabile che molti di loro non provano neanche a denunciarla. In una società in cui gli uomini sono chiamati ad impadronirsi attivamente del mondo attraverso l’affermazione di sé, il dominio ed il controllo, non è di principio previsto che possano ricoprire il ruolo di vittima. Nella logica di questa società, il concetto stesso di “vittima uomo” costituisce un paradosso culturale. In altre parole si può essere vittima oppure uomini ma non entrambi, non a caso i due termini sono considerati incompatibili. Le forme descritte di violenza agita sono quelle da sempre considerate tipicamente maschili, quindi violenza psicologica con offese, disistima e svalutazione, ricatti materiali e morali che durante la fase di separazione e divorzio assumono la forma di mobbing familiare e giudiziario che come conseguenza può arrivare a creare un vero e proprio disagio psicologico per l‘uomo che ne è vittima. Ma anche violenza fisica, con schiaffi e colpi, spinte, lanci di oggetti, calci, morsi, pugni. O ancora colpire o tentare di colpire con qualcosa, picchiare e minacciare con pistole e coltelli. E la gravità della situazione non va solo a danno dell’uomo che la riceve, ma anche di eventuali figli e delle vittime reali che poi non vengono credute. Quindi, non si tratta più di chiedersi se i maschi siano più aggressivi delle femmine, ma se i due sessi agiscano in situazioni e modalità diverse.

Foto Valeriana Mariani
Presidente Donna Impresa

Ciò significa anche spezzare il circolo di profezie che si auto avverano e che relegano maschi e femmine in ruoli fissi e prestabiliti ed assumono il significato di un insieme di buone/cattive qualità. Le notizie che scandiscono con tragica regolarità le cronache sono la testimonianza quotidiana e tangibile di un drammatico problema sociale e culturale, sfuggente, silenzioso, difficile da affrontare perché si insinua ovunque.

Una piaga senza barriere e trasversale che tocca tutti gli individui che compongono la nostra complessa società senza distinzione: condizioni economiche, culturali, religiose o di appartenenza etnica delle persone coinvolte non c’entrano con le ragioni che la innescano. E’ necessario dunque ripensare le strategie e le politiche d’intervento in una dimensione più ampia, tenendo conto dei tanti aspetti coinvolti, a partire dalla modifica dei modelli culturali di riferimento. Porre fine alla violenza è un obiettivo ambizioso. Ma raggiungibile.

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