DALLA PARTE DELLE DONNE by Valeriana Mariani

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DALLA PARTE DELLE DONNE

La dimensione perversa del patriarcato.

DIETRO LE QUINTE

La maggioranza delle donne ha sempre lavorato, ha sempre avuto una funzione produttiva, dalle schiave dell’antichità, alle contadine, alle lavoratrici a domicilio, alle operaie dei convitti-lager delle fabbriche ancora fino alle soglie del Novecento, alle stesse dominae della famiglia-unità produttiva tipica dell’epoca industriale. Tuttavia è l’esistenza di un lavoro salariato che autonomizza la donna – figlia e sposa – dal gruppo familiare, rendendola economicamente indipendente o comunque ponendola quale produttrice autonoma, a impostare la questione femminile come questione sociale, pubblica, al di fuori della struttura di potere e della divisione del lavoro proprie della famiglia. Il lavoro cioè diviene fornitore, almeno potenzialmente, di identità specifica per la donna come individuo, non come membro del gruppo familiare (e contemporaneamente innesca il conflitto tra la donna lavoratrice e la donna-sposa-madre.

LA QUESTIONE FEMMINILE NELLE SOCIETÀ INDUSTRIALI AVANZATE

La società contemporanea, fatta di rapidi e profondi mutamenti, fa sì che le persone ricerchino un equilibrio fra una vita lavorativa fluida e sottoposta a rischi di instabilità ed un contesto familiare esigente e di non semplice gestione. Il conciliare in modo equilibrato diviene allora uno dei principali problemi che gli individui si trovano a dover affrontare all’interno di contesti socio-economici contraddistinti da una progressiva scomparsa dei confini spazio-temporali fra lavoro e famiglia. Due dimensioni diametralmente opposte dal punto di vista delle necessità ma non dal fine in quanto accumunate dal desiderio di successo. Un successo che rendono necessarie misure di work-life balance, tematica che ha suscitato, e suscita, un crescente interesse nelle istituzioni pubbliche e private, in virtù di una serie di fattori, tra cui il drastico calo della natalità e il persistente incremento della popolazione anziana, ma soprattutto l’aumentata partecipazione femminile al mercato del lavoro. Sono principalmente le donne a doversi confrontare con la quotidiana ossessiva ricerca del giusto equilibrio, nelle vesti di acrobate sempre in bilico – a volte senza alcuna rete di protezione – tra lavoro professionale e lavoro familiare, costrette in molti casi alla difficile scelta fra il ruolo di madre-moglie e/o quello di lavoratrice. Un quadro problematico che trae origine dal genere come costruzione sociale, laddove centrali risultano le categorizzazioni, le convenzioni condivise e gli stereotipi collettivi concernenti le differenze di origine sessuale e nella perpetuazione del tradizionale modello familiare, che propugna l’esclusione della donna dall’universo degli affari pubblico economici e la sua relegazione entro le mura domestiche, in una posizione inferiore e di subalternità che contribuisce alla cristallizzazione del cosiddetto “dominio maschile”. Sebbene anche nel ‘900 abbiamo assistito a sostanziali cambiamenti che hanno interessato il ruolo sociale ed economico della donna – per la quale il lavoro remunerato è progressivamente divenuto una parte sempre più integrante dell’esistenza -, immutabile risulta la divisione del lavoro familiare, attribuita ancora pressoché esclusivamente alle componenti femminili, costrette pertanto a dover tener conto delle interferenze, se non di veri e propri conflitti, fra le attività lavorative e quelle familiari. Il processo evolutivo che si delinea pertanto all’interno di un milieu socio-culturale, di un quadro politico ed istituzionale ancora profondamente legato alla rigida separazione tra le sfere pubblica e privata, non ancora completamente propenso ad accettare la complessità dell’identità femminile. Rimane centrale tutt’oggi la questione della conciliazione tra la dimensione della donna lavoratrice e la dimensione familiare il cui equilibrio gioca un ruolo fondamentale nell’incoraggiare o nel dissuadere la partecipazione lavorativa delle donne, così come nel promuovere una, più o meno, equilibrata armonizzazione fra vita e lavoro. purtroppo le stesse politiche ed i discorsi pubblici sono modellati sulla base di pregiudizi, stereotipi, archetipi e prodotti dell’immaginario collettivo che in merito alle tematiche in oggetto continuano a riproporre contraddizioni ed ambivalenze, sostenendo un’asimmetria nei rapporti di genere. Ancora oggi, infatti, possiamo osservare l’azione congiunta di un duplice messaggio rivolto alla componente femminile: da un lato, la richiesta di adesione all’universale criterio normativo d’azione che identifica nell’attività produttiva svolta sul mercato la fonte primaria di definizione di un’identità individuale autonoma; dall’altro lato, l’attribuzione di una centralità nell’adempimento delle responsabilità di cura, ossia un criterio d’azione differente dal primo, ad esso alternativamente sovraordinato e parallelo. Tende a prevalere ancora una cultura tradizionalmente familista, quasi indifferente alle profonde trasformazioni che hanno interessato le biografie esistenziali e lavorative, così come il più vasto contesto socio-economico, che associa al paradigma della doppia presenza una immagine spesso distorta della conciliazione. Nonostante l’aumentata partecipazione femminile al mercato del lavoro resiste ancora una cultura maschile dominante nella vita organizzativa che privilegia la figura idealtipica maschile, priva di quelle responsabilità familiari e di cura, considerate invece prerogativa della controparte femminile, contribuendo così a consolidare la tradizionale divisione delle responsabilità. Una logica omologante ha dunque prevalso e tuttora tende a prevalere nei contesti organizzativi, laddove la diversità e la soggettività sono ignorate o esorcizzate, rimandando all’esterno dell’ambiente di lavoro, ovvero all’interno delle mura domestiche, quella difformità di aspettative, carichi di responsabilità ed attività familiari e di cura. In tema di conciliazione tra lavoro remunerato e familiare, centrali sono dunque i principi dell’ordine sociale fondato sul “dominio maschile” e della ostilità verso un pieno riconoscimento della “cittadinanza di genere” a dominare la cultura organizzativa.

L’ARDUO INCONTRO FRA DONNE E MERCATO: IL WORK-LIFE BALANCE

Ciò ha reso necessarie pratiche e stili conciliativi all’interno di realtà lavorative: le cosidette misure di work-life balance, nella convinzione che alla base della definizione di queste stesse strategie si collochino una serie di opinioni, costrutti, assunti ideologici personali concernenti il valore della maternità, il significato attribuito all’esperienza lavorativa, l’interpretazione dei ruoli familiari e la condivisione dei compiti di cura che non sempre garantiscano la fattibilità e l’effettività della costruzione di una pratica di “cittadinanza di genere”. Affinché questo si realizzi è necessario un processo di apprendimento sociale, un più vasto cambiamento culturale che orienti l’organizzazione al riconoscimento e alla valorizzazione delle diversità, così come alla promozione del benessere e della qualità della vita dei lavoratori coinvolti. Continua tutt’ora a connotarsi per una “contraddizione tra affrancamento dai vecchi ruoli loro ascritti e riassoggettamento ad essi” e così sarà sino a quando “le donne avranno figli, li allatteranno, si sentiranno responsabili per loro, vedranno in loro una parte essenziale della loro vita, i figli resteranno ‘ostacoli’ voluti nella competizione occupazionale, e tentazioni di una decisione consapevole contro l’autonomia economica e la carriera. La situazione degli uomini è ben diversa. Mentre le donne devono allentare i loro vecchi ruoli di ‘un’esistenza per gli altri’ e cercare una nuova identità sociale anche per motivi economici, per gli uomini la garanzia di una vita economicamente indipendente e la vecchia identità di ruolo coincidono. Nel ruolo stereotipicamente maschile dell’uomo in carriera sono congiunti l’individualizzazione economica e il comportamento di ruolo maschile”. In effetti, come molte ricerche hanno dimostrato, il lavoro domestico, riproduttivo e di cura, che potremmo definire “il lavoro dietro alle quinte”, da sempre risulta prerogativa del genere femminile, mentre “gioie e doveri della paternità sono sempre stati gustati in piccole dosi, come piaceri del tempo libero”, senza che la paternità potesse fungere da ostacolo all’esercizio della professione.

WELFARE, CULTURA E FAMIGLIA

In questa prospettiva, la mia attenzione nella parte empirica si concentra anche sulla cultura organizzativa, sul cosiddetto “clima aziendale” definito e percepito intorno alla questione del work-life balance, ossia sui cambiamenti simbolici relativi alla costruzione sociale del genere e del problema stesso di conciliazione. Solo se inquadrato in questa prospettiva il tema della conciliazione potrà uscire “da un’ottica riduttiva di ricerca di soluzioni per le esigenze ed i bisogni personali del soggetto femminile, legati a specifici e definiti cicli vitali, per divenire elemento di innovazione del sistema produttivo e del tessuto sociale, per fornire la chiave di volta di un sistema integrato di politiche organizzative d’impresa, di politiche formative, di politiche sociali e di politiche del territorio rispondenti ai bisogni soggettivi di donne e uomini. Il tema della conciliazione, così come espresso nelle legislazione, dovrebbe assumere una natura neutra, ossia risultare indifferentemente rivolto alla popolazione lavorativa femminile e maschile, in realtà permane una forte connotazione di genere nelle pratiche di armonizzazione adottate sul campo. Assumono allora un peso non indifferente nella comprensione della reale efficacia delle misure di work-life balance rispetto alle finalità prefissate gli stessi contesti organizzativi entro cui si esplica e si realizza questa ricerca di equilibrio, ossia il “clima aziendale” costruito attorno a tali politiche. Un aspetto questo che non può essere sottovalutato nell’analisi di quelli che sono i vantaggi, i limiti e le contraddizioni di simili interventi, che ancora oggi sono principalmente indirizzati all’universo femminile, con il conseguente rischio di una riproposizione delle cosiddette “trappole di genere”. Esiste una corrispondenza fra le motivazioni addotte, gli obiettivi dichiarati e gli effetti concreti dell’introduzione delle misure di conciliazione? Esiste una coerenza tra questi aspetti, anche a costo di dover ridefinire modelli e prassi consolidate nell’ottica della promozione di una “cittadinanza di genere” all’interno delle organizzazioni lavorative, oppure tali interventi si risolvono semplicemente in eventi di natura episodica? L’esistenza formale di una misura politica non è sufficiente a garantire il suo effettivo utilizzo: sulla decisione personale di fruire di particolari misure conciliative incidono una molteplicità di fattori, individuali e non. Fra questi ultimi indubbiamente rientrano il più vasto contesto sociale lavorativo, la cultura organizzativa in esso presente, il modello di genere che viene in essa riprodotto. Il rischio è dunque che, al di là della formale introduzione di misure orientate verso una migliore armonizzazione del lavoro remunerato con quello familiare, il contesto organizzativo continui, attraverso le interazioni sociali e le pratiche quotidiane (ossia i rapporti tra i lavoratori, i rapporti tra i differenti livelli gerarchici, i processi decisionali, l’affidamento di compiti, la suddivisione delle attività interne, la negoziazione sui tempi e sui ritmi, etc.), a riaffermare la centralità di un ordine simbolico di genere fondato sull’ “archetipo della separatezza tra ciò che è maschile e ciò che è femminile” e sulla subordinazione ‘simbolica’ del secondo rispetto al primo. Al contrario, l’istituzionalizzazione di una nuova regolamentazione dei rapporti tra lavoro remunerato e lavoro familiare presume un processo di cambiamento culturale, che constatiamo spesso ancora lontano dal concreto raggiungimento, non esaurendosi nella semplice formalizzazione di dispositivi normativi. La conciliazione “è tornata ad essere una vicenda delle donne e solo delle donne. O almeno così risulta dai dati a nostra disposizione: esiguo utilizzo dei congedi da parte dei partners di genere maschile, scarso ricorso agli strumenti di flessibilità oraria, limitata condivisione delle responsabilità familiari e/o domestiche. Aspetti su cui indubbiamente hanno inciso, da un lato, una carenza legislativa in merito alla ripartizione degli impegni nella sfera privata, a cui solo di recente si è cercato di porre rimedio, e, dall’altro, un retaggio culturale del passato che ha descritto l’uomo come esente da responsabilità di cura. Cosicché, se le politiche istituzionali e sociali si sono negli ultimi tempi orientate verso la promozione di una più equilibrata condivisione delle responsabilità riproduttive in ambito domestico, manca una loro concreta istituzionalizzazione. Sono inoltre rinvenibili al loro interno logiche contraddittorie che fanno sì che l’identificazione del lavoratore di genere maschile quale soggetto detentore di diritti e doveri di cura (si pensi alla concessione dei congedi parentali in sostituzione di quelli di maternità, che rimarcavano la prioritaria responsabilità femminile in questo ambito) difficilmente assuma la concretezza sperata. E il fatto che la modulistica in oggetto sia ancora declinata al femminile è sintomatico di tali ambivalenze e contraddittorietà e concorre ad alimentare nell’uomo, nel momento in cui avanza richieste afferenti la conciliazione, il timore di incorrere in disapprovazioni sociali ed incomprensioni all’interno delle organizzazioni di lavoro, ancora impostate sulla logica del presenzialismo e della visibilità che da sempre ha penalizzato l’universo femminile, in virtù del suo rapporto discontinuo con il mercato dovuto alla sovrapposizione con la biografia esistenziale e familiare.

VIENE COSÌ A DELINEARSI QUEL “MONDO SOFFOCANTE” IN CUI ESISTE SOLO IL TEMPO PER IL LAVORO ED IL TEMPO PER LA FAMIGLIA.

Ma le medesime politiche di riforma, pur richiamandosi ad una logica di pari opportunità, concorrono in realtà a riaffermare quella classica distinzione dicotomica fra razionalità maschile ed emotività femminile, fra produzione e riproduzione, che finisce inevitabilmente con lo svilire la posizione della donna nel mercato del lavoro lasciando sottinteso l’assunto che spetti all’uomo la possibilità di una progressione di carriera. In questo modo deve diventare centrale il cambiamento culturale. Ma da solo non basta. Sino a quando nella costruzione sociale continuerà ad essere trasmessa la categorizzazione che associa la donna (e solo la donna) alla responsabilità familiare e riproduttiva, inevitabilmente la conciliazione continuerà ad essere delegata al genere femminile, propugnando l’equazione fra politiche di conciliazione e politiche di genere. Pertanto, senza mettere in discussione i rapporti asimmetrici presenti all’interno del nucleo familiare, così come senza intervenire sui più ampi rapporti esistenti fra dimensione familiare e dimensione aziendale, fra contesto familiare, contesto lavorativo e più ampio contesto societario, non sarà possibile l’affermarsi di quel tanto auspicato cambiamento culturale che è alla base di un nuovo modello di conciliazione, più paritaria, priva di connotazioni di genere e non esclusivamente intesa come soggettiva o individuale. È perciò necessario aumentare gli spazi per la partecipazione delle donne, all’interno delle istituzioni, dei partiti o più in generale in ambito dirigenziale. A nostro avviso – al fine di realizzare ed attuare delle politiche concrete che sostengano la parità di genere, la valorizzazione del lavoro femminile e la “gender diversity” – è essenziale l’inclusione e una sempre maggiore collaborazione fra i sessi. Occorre cogliere ogni opportunità nel lavoro e in ogni altro contesto del vivere sociale e della quotidianità, affermando una sempre maggiore consapevolezza e partecipazione all’interno di quella macchina complessa che è la nostra società.

LE STORIE DELLE DONNE SONO DIVERSE NEI DETTAGLI, MA LO SCHEMA È LO STESSO: BASTA UNA SOLA CATASTROFE ORDINARIA – VIOLENZA DOMESTICA, DIVORZIO, LUTTO, UN CROLLO – PER PRECIPITARE LA POVERTÀ.

L’occupazione femminile e la carriera delle donne sono frastagliate da ostacoli e problemi irrisolti. Si tratta di un importante tema di dibattito che dovrebbe ritornare in auge nell’agenda politica nazionale

La situazione femminile relativa al mercato del lavoro è quanto mai seria e di estrema attualità, se consideriamo anche l’andamento generale dell’economia italiana e dei restanti partner europei. In Italia la media delle donne occupate si pone ben al di sotto della media europea (63,3% nel 2018), arrestandosi al 49,5%. Un dato che presenta enormi squilibri a livello regionale, con la Sicilia maglia nera per l’occupazione femminile in Europa con una media del 29,2% insieme a Campania, Calabria e Puglia, anch’esse al di sotto del 30%. Al Sud lavora meno di 1 donna su 4, tra i 15 ed i 64 anni, contro il 62,7% dell’Emilia Romagna.

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